OGNI CICATRICE HA LA SUA STORIA DA RACCONTARE

John William Waterhouse – olio – 102 x 159 cm – 1916 – (Lady Lever Art Gallery (Port Sunlight, United Kingdom))

Da adulti spesso ci capita di guardare le cicatrici che abbiamo sul corpo e ripensare al momento in cui ce le siamo procurate. Quando le cicatrici sono evidenti  le persone capita facciano domande su di esse. Ancor più spesso sono i bambini ad essere così liberi dai catenacci del pudore a domandare: “Come te la sei fatta?”, una sorta di proposta a condividere una storia personalissima, storia fatta di cadute, dolore probabilmente, di cure genitoriali, di emozioni di fragilità ma anche, forse, di spirito di avventura.

E’ giusto domandarsi se le nostre cicatrici sono diventate storie,  racconti narrabili a se stessi e agli altri.

Il pensiero narrativo

Jerome Bruner ha scritto, tra gli altri il testo La mente a più dimensioni (1986), in cui l’Autore descrive appunto la capacità di narrare è la dimensione fondamentale e insopprimibile del pensiero umano. Il pensiero narrativo – che costruisce infinite possibilità attraverso la parola, immagini, invenzioni e ricordi – è ciò che permette a ognuno di noi di creare il proprio mondo e la propria identità.

‹‹La narrativa ci offre un mezzo pronto e flessibile per trattare gli incerti esiti dei nostri progetti e delle nostre aspettative (…). E’ il nostro talento narrativo che ci dà la capacità di trovare un senso nelle cose quando non ce l’hanno››.  

Il pensieri narrativo, secondo Bruner, ci permette di:

1) dare senso alle esperienze che facciamo;

2) mettere in relazione le emozioni con la realtà esterna;

3) mettere in relazione il passato col presente;

4) aprire il presente al futuro.

Perché questo avvenga però è necessario tener conto anche della realtà emotiva. Se infatti è vero che quello che ci è accaduto non può essere cambiato, i pensieri e le emozioni su quei fatti si, possono essere ri-significati e ri-memorizzati.

Un esempio di narrazione

Ora vi propongo un salto enorme di cultura, andando cioè ad oriente, avrete sicuramente sentito parlare della tecnica chiamata kintsugi 金継ぎo kintsukuroi 金繕い, letteralmente oro (kin) e riunire, riparare, ricongiunzione “tsugi”.

Il pensiero che guida questo tipo di arte  giapponese è che, se buttare i cocci è un’azione certamente lecita,  ne abbiamo a disposizione anche un’altra che potrebbe essere interessante da un punto di vista del  nostro sviluppo di soggetti: prendere i cocci e raccontarci una storia, la nostra personalissima storia.

Di quelle linee di rottura, che sono solo nostre, che ci appartengono rendendoci unici e particolari, possiamo farci qualcosa e  i cocci possono essere riorganizzati. È da questa operazione che tutto si impreziosisce.

Come vedete, la cultura giapponese fa uso della metafora in modo esemplare: mentre ripara un vaso rotto in mente, come modello, ha che nessuna esperienza, per essere elaborata, dovrebbe essere sprecata. Dal modello si organizza successivamente una tecnica.

In genere, per riunire i pezzi di un oggetto di ceramica rotto e  sottolineare il valore della cicatrice, si usa un metallo prezioso  esaltando le nuove nervature create. Vengono quindi riuniti i frammenti dandogli un aspetto nuovo attraverso le cicatrici impreziosite.

Ogni pezzo riparato diviene unico e irripetibile, per via della casualità con cui la ceramica si frantuma e delle irregolari, ramificate decorazioni che si formano e che vengono esaltate dal metallo.

Le cicatrici sulla nostra pelle

Vi propongo la visione del reportage fotografico nel link, dal titolo “The Scare project. Breast cancer is not a pink ribbon” perchè mi sembra una narrazione efficace di un tentativo di trasformazione di un dolore da INDICIBILE a narrabile. http://www.thescarproject.org/

Il Progetto SCAR è una serie di ritratti su larga scala di giovani sopravvissute al cancro al seno scattate dal fotografo David Jay.

In superficie, una campagna di sensibilizzazione per le giovani donne, il messaggio più profondo del Progetto SCAR è quello dell’umanità.

In definitiva, il Progetto SCAR non riguarda il cancro al seno, ma la condizione umana stessa; le immagini trascendono la malattia, illuminando le cicatrici che ci uniscono tutti.

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