Nell’articolo si riflette sulla possibilità che nella scuola la diversità non sia letta come un limite, ma come indice di complessità e quindi di risorsa.
“I pensieri infantili sono sottili. A volte sono così affilati da penetrare nei territori più impervi arrivando a cogliere, in un istante, l’essenza di cose e relazioni. Ma sono fragili e volatili, si perdono già nel loro farsi e non tornano mai indietro.
così alla maggior parte delle bambini e dei bambini non è concesso il diritto di riconoscere la qualità dei propri pensieri e rendersi conto della loro profondità. A molti non è concesso neppure di arrivare ad esprimerli, perché un pensiero che non trova ascolto difficilmente prende forma e respiro” – Lorenzoni, 2014
La scuola dovrebbe essere un po’ meglio della società
La necessità di scrivere di questo incontro nasce dal mio interesse come psicologa e psicoterapeuta per l’educazione, la formazione, il cambiamento ma anche dal mio essere madre di due bambini e dalla difficoltà che ho incontrato con la scuola, quella pubblica, con mio grande rammarico. Conosco personalmente insegnanti bravi, appassionati, innamorati del loro lavoro, ma ne ho conosciuti di più amareggiati, intristiti e incattiviti da tre aspetti che si intrecciano tra loro: le proprie difficoltà personali, l’assenza di risorse a fronte di una domanda educativa sempre più complessa, e l’assenza di categorie di lettura di ciò che accade in classe e con le famiglie.
“Ho conosciuto da poco un Maestro, che ha parlato della necessità di dare ai bambini il giusto tempo per crescere e fare esperienze. Il Maestro di cui parlo è Franco Lorenzoni, un insegnante di scuola elementare a Giove in Umbria. Coordina ad Amelia la Casa-Laboratorio Cenci, un centro di sperimentazione educativa. Questo incontro mi ha commosso, perché mi ha fatto sentire di non essere sola nel pensare che almeno a scuola i bambini dovrebbero rallentare, imparare e fare le cose con il tempo che ci vuole, avere occasioni per parlare e ascoltare, giocare con la sabbia e le foglie, percepire i profumi e gli odori, scoprire il silenzio, cogliere le sfumature” – L. Bertinato, 2016
Penso a quanto manchi, a mio modo di vedere, una vera e propria relazione d’amore tra gli insegnanti (alcuni/troppi) e la materia che si insegna; questa mancanza balza agli occhi se si pensa, come me, che l’educazione sia fatta di relazione, stia dentro ad una relazione.
Fare cultura, educazione e formazione dovrebbe voler dire prestarsi lo sguardo reciprocamente. Reciproco deriva dal latino RECUS PROPUS, letteralmente avanti e indietro, e dà il senso esatto di ciò che significa relazione.
Compito di chi educa, perciò, è sempre più far sì che la cultura sia un luogo in cui riconoscersi.
Prendo in prestito la vecchia tradizione secondo la quale porterebbe fortuna vestire i bambini con un indumento al rovescio per far scappare il malocchio, che deriva dalla brutture del mondo. Non conoscevo questa tradizione, l’ho appresa leggendo il libro “I bambini pensano grande”, edito da Sellerio. Lorenzoni spiega come possa essere importante per chi educa, soprattutto per gli insegnanti ma evidentemente anche per i genitori, credere che possa essere di una qualche importanza lasciare che i bambini vestano al contrario alcuni abiti mentali.
“È nel modo in cui vestiamo gli abiti che consolidiamo le nostre abitudini” – Lorenzoni, 2014
Solo che è estremamente complesso questo tipo di “atteggiamento”, o meglio di metodo: è difficile lasciare i bambini ai loro pensieri strambi, alla loro emotività dissonante e disturbante. È difficile perché, nel crescere, noi adulti, ci siamo abituati ad esprimere sempre meno questo tipo di contenuti, sollecitati al costante uso della raziocinio e dell’inquadramento dei pensieri e dei vissuti. Soprattutto ci siamo adagiati su una consuetudine maligna: quella di considerare le risposte più importanti delle domande.
Come può un bambino scoprire il proprio modo di pensare?
Tutto ruota oggi intorno al possedere delle certezze: ad una certa età il bambino deve aver appreso delle cose, raggiunto certi obiettivi nel modo che decide, in genere, l’adulto. Mi correggo, nel modo che rassicura maggiormente l’adulto. Le persone si rassicurano se l’altro risponde nel modo in cui l’hanno immaginato, e tutto ciò che devia dalla regola è fastidioso, dissonante.
Al contrario, ho imparato che ciò che sento dissonante per me è un indicatore che potrebbe essere potenzialmente molto prezioso per capire cosa sta succedendo. Non avere certezze dovrebbe farti venire la curiosità di conoscere l’Altro differente da te. Gli insegnanti, purtroppo, si spaventano e cominciano a etichettare:
“Chi è lento nella scrittura è disgrafico, chi lo è nella lettura è dislessico, chi si agita troppo è ipercinetico, chi sta troppo in disparte rischia di diventare depresso, chi rimane indietro nell’apprendimento ha un po’ di ritardo, chi disturba troppo in classe è oppositivo” – S. Costanzo, 2016.
Questo porta ad una costante cultura del deficit: cosa manca, cos’è che non va?
Oggi la scuola tende ad amplificare ciò che è performance; in questo modo, quello che è incerto, fragile, perché in evoluzione e in sviluppo, non ha un luogo dove poter stare. Ci sono i programmi da rispettare, ma questo non è vero, poiché è da diversi anni che i programmi non esistono più (Riforma Moratti). Esistono invece obiettivi di apprendimento (non più annuali, ma pluriennali) e traguardi per lo sviluppo delle competenze.
Un ultimo pensiero sparso: la classe come risorsa
Oggi, il gruppo classe rappresenta la più grande risorsa su cui la scuola possa contare, rispetto alla concorrenza dei media e del progresso tecnologico che ha completamente tagliato fuori la scuola dall’interesse dei bambini e dei giovani. Eppure questo non accade. Accade che la classe venga vista come un insieme di ragazzi messi insieme da un indirizzo formativo, e già sarebbe un motivo bastevole per lavorare sulla formazione di un gruppo classe, inteso come luogo di sviluppo. Ma c’è di più. Lavoro da anni in progetti dentro le scuole, e quello che accade il più delle volte è che, quando entrano gli psicologi e gli educatori esterni, l’insegnante esce dalla classe e “lascia soli i suoi ragazzi/allievi” con degli estranei. Chiunque abbia fatto qualche anno di scuola superiore sa di cosa parlo e spesso avviene la stessa cosa anche alle elementari e alle medie.
Quello che voglio dire è che l’adulto che li conosce meglio, e che più di chiunque altro potrebbe beneficiare di quello che emerge dai laboratori, esce e va via.
In queste situazioni mi domando sempre dove vada a finire la necessaria e fondamentale responsabilità di chi educa (e penso anche ai genitori in questo caso) se i ragazzi vengono lasciati soli nella crescita: soli nell’elaborare vissuti ed emozioni, che si accompagnano sempre quando stiamo in un processo evolutivo.
Spesso sento rispondere che i ragazzi vengono sollecitati all’autonomia, ma non può esistere autonomia senza un adulto che sappia accompagnare e spostarsi, a seconda della necessità: davanti, dietro, di fianco.