SEMINARIO CON MIGUEL BENASAYAG

Sipre Roma organizza con il patrocinio dell’Ordine degli Psicologi del Lazio

SEMINARIO CON MIGUEL BENASAYAG “Clinica della post-modernità: la psicoterapia tra iper-individualismo e dipendenza”.

Sabato 21 settembre 2019
Centro Congressi Cavour (Via Cavour, 50/A – Roma)

Tema dell’incontro.
Che la psiche personale non sia mai una cosa del tutto “privata” è un dato che dovrebbe essere oramai quasi ovvio, se non fosse per il fatto che in quanto psicoanalisti siamo stati per tanto tempo portati a dimenticarcelo.
Naturalmente, in quanto psicoterapeuti siamo orientati a concentrare la nostra attenzione sulla percezione che l’altro ha di se stesso, ma non dovremmo mai trascurare il fatto che sia noi che i pazienti siamo immersi in un contenitore culturale che ci comprende entrambi e che entrambi continuiamo, a volte molto inconsapevolmente, a mantenere.
In un’epoca come la nostra dominata dalle “passioni tristi” oltre che dal disorientamento indotto dall’ebbrezza digitale, la sofferenza che le persone ci portano nei nostri studi di psicoterapia è spesso caratterizzata da vissuti di precarietà e di impotenza oltre che da un vuoto di “senso” in cui smarrita sembra essere la base stessa di ciò che costituisce la fondazione ontologica del soggetto umano: i limiti “territoriali” del corpo e i legami “ecologici” con gli altri.
In che modo, in quanto psicoterapeuti, ci confrontiamo con tutto ciò?
Qual è la responsabilità “etica” che la psicoterapia oggi non può più permettersi di ignorare?
Convinti come siamo che la risposta a queste domande non sia impresa meramente individuale, intendiamo con questo seminario offrire un’occasione di incontro e confronto dove immaginare una strada da tracciare “insieme”.

…la questione dell’etichetta ci rimanda a quella della norma (in particolare alla norma sociale su cui ci siamo già soffermati) e al suo funzionamento all’interno delle nostre culture. È normale per così dire ciò che “non si vede…” , ciò che non sconfina appunto dall’etichetta. 
Ad esempio, nessuno sentirà la necessità di sottolineare che il presidente francese è un “uomo”, ma ovunque si è commentato il fatto che il primo ministro indiano fosse una “donna”; analogamente, nessuno constaterebbe con aria più o meno scioccata che il ministro dell’Interno è “etero-sessuale”, ma se il sindaco di una città importante è “omo-sessuale”, la gente lo ritiene un argomento da commentare favorevolmente o meno, in questo caso non importa. La norma è così legata a una sorta di circolazione, di distribuzione dello sguardo: è normale ciò che non attira lo sguardo, ciò che si può rubricare sotto la dicitura “niente da segnalare”. Lo sguardo, ciò che si dà a vedere, ciò che bisogna vedere e ciò che bisogna far finta di non vedere: tutto questo determina da un punto di vista antropologico gli elementi principali di ogni cultura e i limiti da non oltrepassare. Questi elementi possono essere molto diversi, ma il meccanismo di base è lo stesso: uno sguardo che tenta di vedere al di là di ciò che l’altro dà a vedere e di ciò che la cultura ritiene possa essere visto infrange i limiti del “corretto”, diventa osceno o abusivo. Prendiamo l’esempio della società afgana. Nei suoi reportage dall’Afghanistan pubblicati nel gennaio 2002 sul quotidiano “Libération’, la giornalista francese Florence Aubenas spiegava cosa guardano gli uomini e le donne nelle donne che indossano il burka, l’abito che le copre dalla testa ai piedi. 
Le donne confessano che il loro sguardo cade sulle mani, per capire com’è questa donna, se è giovane o vecchia, se si cura o meno… Insomma, vedono attraverso le mani tutto ciò che le donne di ogni cultura tentano di 
vedere e che è limitato da ciò che è ammesso “lasciar vedere”. Gli uomini afgani invece confessano che quando vedono passare una 
donna il loro sguardo si dirige sulle caviglie. Per questo le donne mettono 
molta cura nella scelta delle calze, perché sanno che sono proprio ciò che è dato vedere di loro. Giocano così quel gioco universale che consiste nell’evocare ciò che si nasconde, ciò che non deve essere mostrato o anche ciò che non si deve tentare di vedere in pubblico. Vista l’oppressione subita dalle donne afgane, questo esempio può sembrare una provocazione. Ma la nostra intenzione è “pacifica”, vogliamo solo spiegare il meccanismo della norma-sguardo che si applica, con enormi differenze, 
in ogni sistema di norme sociali. Al di là delle differenze, in effetti, lo stesso meccanismo si ripete in Occidente: la minigonna per esempio è ciò che, essendo visto, evoca il non-visibile. Ed è proprio ciò che conferisce ai campi nudisti un carattere spiccatamente puritano. La nudità dei corpi, in questi campi, non è erotica, anzi dice molto chiaramente: “Qui non c’è 
assolutamente nulla da vedere..,circolare!”. Ma esiste un altro genere di nudità, questa volta erotica, in cui la danzatrice (o il danzatore) nudi evocano attraverso movimenti erotici le delizie che lo spettatore potrebbe assaporare, ma che lo spettatore non può vedere. È l’evocazione di ciò che potrebbe accadere in un’altra scena, in una scena privata. 
Questo meccanismo di ciò che si guarda, di ciò che si vede e di ciò che si dà a vedere determina in ogni cultura il rispetto dell’altro, degli altri e di se stessi. Non essere un oggetto trasparente agli occhi dell’altro, infatti, costituisce la base della socievolezza. La divisione tra scene pubbliche e scene private è un fondamento dell’esistenza di qualsiasi comunità; può assumere forme diverse, ma dovunque si ritrova la stessa struttura, la stessa separazione. Brano tratto da “L’ epoca delle passioni tristi” M. Benasayag

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