OGNI CICATRICE HA LA SUA STORIA DA RACCONTARE

John William Waterhouse – olio – 102 x 159 cm – 1916 – (Lady Lever Art Gallery (Port Sunlight, United Kingdom))

Da adulti spesso ci capita di guardare le cicatrici che abbiamo sul corpo e ripensare al momento in cui ce le siamo procurate. Quando le cicatrici sono evidenti  le persone capita facciano domande su di esse. Ancor più spesso sono i bambini ad essere così liberi dai catenacci del pudore a domandare: “Come te la sei fatta?”, una sorta di proposta a condividere una storia personalissima, storia fatta di cadute, dolore probabilmente, di cure genitoriali, di emozioni di fragilità ma anche, forse, di spirito di avventura.

E’ giusto domandarsi se le nostre cicatrici sono diventate storie,  racconti narrabili a se stessi e agli altri.

Il pensiero narrativo

Jerome Bruner ha scritto, tra gli altri il testo La mente a più dimensioni (1986), in cui l’Autore descrive appunto la capacità di narrare è la dimensione fondamentale e insopprimibile del pensiero umano. Il pensiero narrativo – che costruisce infinite possibilità attraverso la parola, immagini, invenzioni e ricordi – è ciò che permette a ognuno di noi di creare il proprio mondo e la propria identità.

‹‹La narrativa ci offre un mezzo pronto e flessibile per trattare gli incerti esiti dei nostri progetti e delle nostre aspettative (…). E’ il nostro talento narrativo che ci dà la capacità di trovare un senso nelle cose quando non ce l’hanno››.  

Il pensieri narrativo, secondo Bruner, ci permette di:

1) dare senso alle esperienze che facciamo;

2) mettere in relazione le emozioni con la realtà esterna;

3) mettere in relazione il passato col presente;

4) aprire il presente al futuro.

Perché questo avvenga però è necessario tener conto anche della realtà emotiva. Se infatti è vero che quello che ci è accaduto non può essere cambiato, i pensieri e le emozioni su quei fatti si, possono essere ri-significati e ri-memorizzati.

Un esempio di narrazione

Ora vi propongo un salto enorme di cultura, andando cioè ad oriente, avrete sicuramente sentito parlare della tecnica chiamata kintsugi 金継ぎo kintsukuroi 金繕い, letteralmente oro (kin) e riunire, riparare, ricongiunzione “tsugi”.

Il pensiero che guida questo tipo di arte  giapponese è che, se buttare i cocci è un’azione certamente lecita,  ne abbiamo a disposizione anche un’altra che potrebbe essere interessante da un punto di vista del  nostro sviluppo di soggetti: prendere i cocci e raccontarci una storia, la nostra personalissima storia.

Di quelle linee di rottura, che sono solo nostre, che ci appartengono rendendoci unici e particolari, possiamo farci qualcosa e  i cocci possono essere riorganizzati. È da questa operazione che tutto si impreziosisce.

Come vedete, la cultura giapponese fa uso della metafora in modo esemplare: mentre ripara un vaso rotto in mente, come modello, ha che nessuna esperienza, per essere elaborata, dovrebbe essere sprecata. Dal modello si organizza successivamente una tecnica.

In genere, per riunire i pezzi di un oggetto di ceramica rotto e  sottolineare il valore della cicatrice, si usa un metallo prezioso  esaltando le nuove nervature create. Vengono quindi riuniti i frammenti dandogli un aspetto nuovo attraverso le cicatrici impreziosite.

Ogni pezzo riparato diviene unico e irripetibile, per via della casualità con cui la ceramica si frantuma e delle irregolari, ramificate decorazioni che si formano e che vengono esaltate dal metallo.

Le cicatrici sulla nostra pelle

Vi propongo la visione del reportage fotografico nel link, dal titolo “The Scare project. Breast cancer is not a pink ribbon” perchè mi sembra una narrazione efficace di un tentativo di trasformazione di un dolore da INDICIBILE a narrabile. http://www.thescarproject.org/

Il Progetto SCAR è una serie di ritratti su larga scala di giovani sopravvissute al cancro al seno scattate dal fotografo David Jay.

In superficie, una campagna di sensibilizzazione per le giovani donne, il messaggio più profondo del Progetto SCAR è quello dell’umanità.

In definitiva, il Progetto SCAR non riguarda il cancro al seno, ma la condizione umana stessa; le immagini trascendono la malattia, illuminando le cicatrici che ci uniscono tutti.

TRA RESILIENZA E RESISTENZA

Una delle parole più (ab)usate in questi tempi moderni è RESILIENZA intesa, semplificando, come una capacità di adattarsi a situazioni anche complicate e andare oltre. Non è una questione nuova, in altri tempi si chiamava capacità di adattamento (Piaget parlava si assimilazione e accomodamento come capacità di apprendere dal mondo e poi integrare le conoscenze nei nostri pattern).

A me piace pensare che questa parola/competenza sia associata ad un’altra che è RESISTENZA. Le penso insieme perchè dobbiamo ascoltare anche quel sentimento ad opporsi, quale sentimento di resistenza, appunto, che ci fa fermare e dire: MA ANCHE NO, questa cosa non mi piace, non la posso accettare. Anche dalla resistenza, da questa emozione possiamo apprendere.

Terzani scrive: “Non insegnate ai vostri figli ad adattarsi alla società, ad arrangiarsi con quel che c’è, dategli dei valori interiori (le emozioni come mappa, traduco io) con i quali possano cambiare la società (grazie alla conoscenza di cosa sentiamo, traduco io) e resistere al diabolico (dal greco dia ballo cioè getto attraverso, allude ad un gettare nella confusione*) progetto della globalizzazione dei cervelli”

Siamo sempre lì, resilienza e resistenza, un conto è pensarle come fenomeni, un altro conto è trattarle come emozioni da cui iniziare pensieri.

Nel link un articoletto da cui si può prendere qualcosa e altro lasciarlo, come tutto del resto. http://www.minimaetmoralia.it/…/meno-resilienza-piu-resist…/

* al contrario del SIMBOLO che dal greco simballo allude all’unire, al mettere insieme, integrando.

#9 Letture ai tempi del virus

Nel suo nuovo articolo Ronchi chiarisce come il Covid-19 rappresenti nel profondo la natura del trauma: accade qualcosa di cui non riusciamo a capirne l’oggetto. E in questo senso sottolinea come il virus ci abbia trasformati da popolo, in popolazione e ciò che ne potrebbe derivare.

Buona lettura

Teologia del virus di Rocco Ronchi

Quando si prova a pensare al cambiamento che il Covid 19 produrrà nel nostro futuro si è inclini ad un certo “apofatismo”. Come per il Dio “al di là dell’essere” della teologia negativa nessuna delle categorie del discorso pubblico alle quali eravamo abituati sembra infatti in grado di rendere ragione della trasformazione che sta operando nelle nostre vite e, soprattutto, di quelle che genererà “dopo”.

Del virus, sul piano empirico, sappiamo molto. Con fiducia e riconoscenza ci rivolgiamo infatti agli scienziati e al loro certosino lavoro, ma anche gli scienziati condividono lo stesso nostro spaesamento circa ciò che il virus sta facendo e farà di noi in quanto “comunità umana”. La situazione è strana: da un lato abbiamo la certezza che è in atto un cambiamento radicale, che niente sarà come prima, dall’altro cosa accadrà, quale cambiamento è in corso, resta totalmente indeciso. Il trauma, del resto, ha proprio questa natura. È il sentimento incontrovertibile di un “accadere” che però non ha oggetto.

Il trauma certifica, con la sua dolorosa evidenza, che qualcosa è accaduto, segnando una discontinuità radicale e irreversibile nelle nostre vite, ma non ha un contenuto da offrire al sapere. Restiamo attoniti, istupiditi, senza un discorso che sia capace di trasformare il colpo subito in un sapere comunicabile. Renderlo comunicabile vorrebbe dire padroneggiarlo, tenerlo a distanza e, in qualche modo, disporne, ma per farlo bisognerebbe trovare un “genere” al quale ricondurlo come “specie”.

Ed è proprio a questo che Covid 19, come il Dio della teologia apofatica, si rifiuta. Non si lascia ricondurre a niente di già noto, se non per un’approssimazione sempre difettosa. Non si è forse concordi nel riconoscere che non si era mai visto niente di simile? che qualcosa di radicalmente nuovo e di ingovernabile si è stabilmente insediato nella nostra esistenza? 

Ci rendiamo conto di questa differenza “di natura” quando, quasi per rassicurarci di fronte all’ignoto, cerchiamo analogie con altri eventi storici del nostro passato recente e meno recente: dalla minaccia terroristica globale alle guerre mondiali.

Ne restiamo alla fine sempre delusi perché la differenza dell’evento Covid 19 non si lascia ricomprendere all’interno del genere comune “storia”. Si smarca dagli altri eventi che abbiamo conosciuto, non fa serie con loro, mostra una eccedenza rispetto al genere prossimo nel quale cerchiamo di collocarlo (non a caso affiora sulla bocca di tutti l’aggettivo “epocale” che segnala una frattura con tutto quello che abbiamo conosciuto “prima”).

Questo non significa che la sua intelligenza come fenomeno possa prescindere dalla storia. Non appartiene alla storia perché si situa al di qua di essa, disponendosi, per così dire, sul suo sfondo eterno.

La storia dopotutto è faccenda umana, anzi è il prodotto di una determinata umanità (ci sono “popoli” senza storia, almeno nel senso occidentale del termine, ci sono intere epoche ignare del nostro concetto di storia). Essa certo coinvolge e trasforma la natura, fino a farne un risultato dell’azione dell’uomo (l’antropocene), ma resta pur sempre una operazione parziale messa in atto da una umanità determinata che agisce sullo sfondo di un “tutto” che trascorre indifferente.

Ora, se si riconsiderano le ragioni che giustificano un parallelo tra l’evento Covid 19 e l’11 Settembre o le due guerre novecentesche, esse stanno, mi sembra, nel carattere “globale” della minaccia terroristica e nel carattere “mondiale” di quei conflitti. Sono giganteschi eventi storici che in qualche modo hanno riguardato il “tutto”, però solo in linea di principio e non realmente. Di fatto non la vita tutta era presa di mira (cosa che accadrà nel secondo dopoguerra, con l’incubo nucleare, ma solo nella forma della minaccia e non in quello della realtà di fatto e cosa che si ripete oggi con il cambiamento climatico ma secondo tempi fuori scala con la sensibilità umana).

La differenza dell’evento Covid 19 sta invece proprio nel suo far sul serio con il tutto. Non è mondiale o globale per metafora come la guerra o il terrorismo. Lo è in senso letterale. Farà strage nella Repubblica Centroafricana, come tanti altri virus influenzali del passato, e abbatterà le più avanzate economie del pianeta. Il tutto è il suo orizzonte e la vita il suo elemento. Non ci sono angolini appartati in cui i ricchi possano rifugiarsi con i loro jet privati né zone neutrali in cui riparare. Al pari del Dio della teologia apofatica non ha niente fuori di sé.

Covid 19 è una pandemiaPan in greco significa “tutto”, demos “popolo”. Pandémia era detta in Grecia quella Afrodite meretrice che, incurante delle convenzioni sociali, si concede lascivamente a tutti. Ora, cosa succede quando un trauma concerne tutto il popolo senza eccezioni?

Accade quello che di fatto sperimentiamo quotidianamente, con un misto di orrore e fascinazione e per il quale ci mancano le parole: il popolo cessa di essere un popolo per diventare astratta “popolazione”, nel senso in cui nelle scienze naturali si parla, ad esempio, di “popolazione delle api” esposta alla minaccia della sparizione a causa di un qualche fattore patogeno esterno o di una mutazione genetica.

Il “popolo” è nozione eminentemente storica. Implica tutta una serie di categorie che solo l’animale parlante ha potuto generare: ha una identità, si differenzia dagli altri popoli, ha dei limiti geografici dettati dalla sua storia e ha una relativa stabilità nel tempo, determinata dalla tradizione. Il popolo, storicamente inteso, è una totalità delimitata e omogenea.

La “popolazione” , invece, è una totalità in divenire dai confini sfumati e sempre rivedibili. Essa ha senz’altro l’unità di un “genere” (api, umani, cellule ecc.) ma la sua unità è inscindibile dal processo del suo costituirsi e del suo disfarsi come tutto. La “popolazione” è un tuttoin atto come tuttoin ogni momento del suo divenire. Non ha parti componenti se non per esigenza di analisi.

Non cessa di ritotalizzarsi ad ogni istante come quella famosa “melodia” che i filosofi, da Bergson a Husserl, hanno preso spesso ad esempio di una unità che si fa attraverso la molteplicità, riconfigurandosi come tutto ad ogni battuta proprio come fa il mare con le sue infinite onde che si infrangono sulla spiaggia. 

Scoprirsi popolazione e non popolo è l’esperienza traumatica prodotta da Covid 19.

Si comprende allora perché alcuni filosofi che non sanno rinunciare all’antica tesi dell’eccezione umana (vale a dire alla presunta differenza dell’uomo dalla natura) hanno reagito in modo scomposto alle “politiche” messe in atto dal governo per rallentare la propagazione del virus. Queste, infatti, se volevano essere efficaci, non potevano che essere delle biopolitiche. Dovevano cioè, conformemente alla definizione di biopolitica fornita da Michel Foucault, mirare a produrre, kata dynamin, per quanto è possibile, la salute di una “popolazione” mettendo anche momentaneamente tra parentesi i diritti “umani”. 

Ma, si dirà, le api non fanno una comunità. A connetterle è una danza inconscia che suscita l’ammirazione del naturalista, ma che è priva di ogni senso morale. In realtà il distanziamento personale, invece di spegnerlo, ha rafforzato il senso di prossimità, ce ne ha fatto sentire l’urgenza proprio sospendendolo per ragioni di forza maggiore. Giustamente qualcuno, a proposito di Covid 19, ha parlato di una ritrovata fraternità nella comunanza di un destino.

Il fatto che per la prima volta, grazie all’opera totalizzante del virus, ci si senta, traumaticamente, “popolazione”, quale comunità può mai produrre? Quale fratellanza? Forse lo può fare perché costringe a rivedere la nozione di responsabilità estendendola al di là dei limiti della sola morale nei quali l’abbiamo finora elaborata.

Siamo infatti soliti declinare la responsabilità nei termini di una relazione con qualcuno. Il qualcuno può essere anche immateriale come lo è la Legge, Dio o lo Stato, tuttavia è sempre un altro determinato, rispetto al quale ci sentiamo obbligati a rispondere delle nostre azioni.

Nel nostro sentirci popolazione matura invece un altro senso della responsabilità: non più responsabilità di qualcosa nei confronti di qualcuno ma responsabilità di tutto per tutti, una responsabilità illimitata senza confini geografici e storici.

Proprio come succede nelle popolazione degli imenotteri, dove ogni “individuo” è perfettamente fungibile con un altro, anche il nostro prossimo, nella comunità mondiale inaugurata dal virus, perde il suo volto, si disindividua fino a diventare un astratto “chiunque”. È per lui che ci laviamo disciplinatamente le mani.

E la mascherina che indossiamo ha lo stesso scopo, quello di trasformarci nel solo “soggetto” possibile quando si fuoriesce dalla storia per “abitare” (o “disabitare”, come scriveva Giorgio Caproni) il tutto.

Nessuno meglio di Gilles Deleuze ha saputo descrivere il “chiunque”. Lo ha fatto nel suo ultimo scritto, poco prima di suicidarsi.

La vita dell’individuo – scriveva – ha lasciato posto a una vita impersonale, e tuttavia singolare, che esprime un puro evento affrancato dagli accidenti della vita esteriore e interiore, ossia dalla soggettività e dall’oggettività di ciò che accade. «Homo tantum» di cui tutti hanno compassione e che conquista una sorta di beatitudine. È una ecceità, che non deriva più da una individuazione, ma da una singolarizzazione: vita di pura immanenza, neutra al di là del bene e del male, poiché solo il soggetto che la incarnava in mezzo alle cose la rendeva buona o cattiva. La vita di questa individualità scompare a vantaggio della vita singolare immanente a un uomo che non ha più nome, sebbene non si confonda con nessun altro”.

https://www.doppiozero.com/materiali/teologia-del-virus

#8 Letture ai tempi del virus

INTERVISTA A EDGAR MORIN

Filosofo della complessità

“Dobbiamo vivere nell’incertezza”. Trad. Alessia Fedeli

Il link dell’articolo originale https://lejournal.cnrs.fr/articles/edgar-morin-nous-devons-vivre-avec-lincertitude

L’intervista è tratta dalla rivista CNRS Le Journal – Donner du sens à la science

Edgar Morin, sociologue

Confinato nella sua casa di Montpellier, il filosofo Edgar Morin rimane fedele alla sua visione globale della società. La crisi epidemica, ci dice, deve insegnarci a comprendere meglio la scienza e a vivere nell’incertezza. E per riscoprire una forma di umanesimo.

La pandemia di coronavirus ha brutalmente riportato la scienza al centro della società. La società si trasformerà di conseguenza?

Edgar Morin: Quello che mi colpisce è che gran parte del pubblico considerava la scienza un repertorio di verità assolute, affermazioni inconfutabili. E tutti furono rassicurati nel vedere che il presidente si era circondato di un consiglio scientifico. Ma cosa è successo? Molto rapidamente, è diventato chiaro che questi scienziati difendevano punti di vista molto diversi e talvolta contraddittori, sia sulle misure da adottare, sia sui possibili nuovi rimedi per rispondere all’emergenza, sulla validità di questo o quel farmaco, sulla durata delle sperimentazioni cliniche da intraprendere… Tutte queste controversie introducono il dubbio nella mente dei cittadini.

Sta dicendo che il pubblico rischia di perdere fiducia nella scienza?

E.M.: No, se capisce che la scienza vive e progredisce attraverso la polemica. I dibattiti sulla clorochina, per esempio, hanno sollevato la questione dell’alternativa tra urgenza o cautela. Il mondo scientifico aveva già sperimentato forti polemiche quando l’AIDS apparve negli anni Ottanta. Ciò che i filosofi della scienza ci hanno mostrato è proprio che la polemica è parte integrante della ricerca. La ricerca ne ha addirittura bisogno per progredire.

Purtroppo, pochissimi scienziati hanno letto Karl Popper, che ha stabilito che una teoria scientifica è tale solo se è confutabile, Gaston Bachelard, che ha posto il problema della complessità della conoscenza, o Thomas Kuhn, che ha mostrato chiaramente come la storia della scienza sia un processo discontinuo. Troppi scienziati non conoscono il contributo di questi grandi epistemologi e lavorano ancora da un punto di vista dogmatico.

La crisi attuale cambierà questa visione della scienza?

E.M.: Non posso prevederlo, ma spero che serva a rivelare quanto la scienza sia più complessa di quanto vorremmo credere – sia che ci schieriamo con chi la vede come un catalogo di dogmi, sia con chi vede gli scienziati solo come tanti virus Diafo (un ciarlatano nell’immaginario Le Malade di Molière, ndr) che si contraddicono continuamente…

La scienza è una realtà umana che, come la democrazia, si basa sul dibattito delle idee, anche se le sue modalità di verifica sono più rigorose. Nonostante ciò, le grandi teorie accettate tendono ad essere dogmatiche, e i grandi innovatori hanno sempre avuto difficoltà a far riconoscere le loro scoperte. L’episodio che stiamo vivendo oggi può quindi essere il momento giusto per sensibilizzare i cittadini e i ricercatori sulla necessità di comprendere che le teorie scientifiche non sono assolute, come i dogmi delle religioni, ma biodegradabili.

La catastrofe sanitaria, o la situazione di contenimento senza precedenti che stiamo vivendo: secondo lei, cosa colpisce di più?

E.M.: Non c’è bisogno di stabilire una gerarchia tra queste due situazioni, poiché la loro sequenza è stata cronologica e sta portando a una crisi che possiamo dire essere una crisi di civiltà, perché ci sta costringendo a cambiare il nostro comportamento e a cambiare le nostre vite, sia a livello locale che globale. Tutto questo è un insieme complesso. Se vogliamo guardarla da un punto di vista filosofico, dobbiamo cercare di fare il collegamento tra tutte queste crisi e riflettere soprattutto sull’incertezza, che è la sua caratteristica principale.

Ciò che è molto interessante della crisi del coronavirus è che non abbiamo ancora alcuna certezza sull’origine stessa di questo virus, né sulle sue diverse forme, sulle popolazioni che attacca, sul suo grado di nocività… Ma stiamo anche vivendo una grande incertezza su tutte le conseguenze dell’epidemia in tutte le aree, sociali, economiche…

Ma come pensa che queste incertezze costituiscano il legame tra tutte queste crisi?

E.M.: Perché dobbiamo imparare ad accettarli e a vivere con loro, anche se la nostra civiltà ci ha instillato la necessità di certezze sempre maggiori sul futuro, spesso illusorie, a volte frivole, quando ci è stato accuratamente descritto ciò che ci accadrà nel 2025! L’arrivo di questo virus dovrebbe ricordarci che l’incertezza rimane una parte inespugnabile della condizione umana. Tutte le assicurazioni sociali a cui potete iscrivervi non potranno mai garantire che non vi ammalerete o che sarete felicemente sposati! Cerchiamo di circondarci di un massimo di certezze, ma vivere è navigare in un mare di incertezza, attraverso isolotti e arcipelaghi di certezze su cui si possono trovare rifornimenti… 

È questa la tua regola di vita?

E.M.: È piuttosto il risultato della mia esperienza. Ho assistito a così tanti eventi imprevisti nella mia vita – dalla resistenza sovietica negli anni ’30 alla caduta dell’URSS, per parlare solo di due improbabili eventi storici prima che accadessero – che fa parte del mio modo di essere. Non vivo nell’ansia permanente, ma mi aspetto che si verifichino eventi più o meno catastrofici. Non dico di aver previsto l’attuale epidemia, ma da diversi anni dico, per esempio, che con il degrado della nostra biosfera, dobbiamo essere preparati ai disastri. Sì, questo fa parte della mia filosofia: “Aspettatevi l’imprevisto».

Inoltre, sono preoccupato per il destino del mondo dopo aver capito, leggendo Heidegger nel 1960, che stiamo vivendo nell’era globale, e poi nel 2000 che la globalizzazione è un processo che può causare tanti danni quanto benefici. Osservo anche che lo scatenarsi incontrollato dello sviluppo tecno-economico, spinto da una sete illimitata di profitto e favorito da una politica neoliberale generalizzata, è diventato dannoso e provoca crisi di ogni tipo. Da quel momento in poi, sono intellettualmente pronto ad affrontare l’imprevisto, ad affrontare gli sconvolgimenti.

Passando alla Francia, come giudica la gestione dell’epidemia da parte delle autorità pubbliche?

E.M.: Mi dispiace che alcune esigenze siano state negate, come la necessità di indossare una maschera, solo per… mascherare il fatto che non ce n’erano! E’ stato anche detto: i test sono inutili, solo per nascondere il fatto che non ne avevamo neanche noi. Sarebbe umano riconoscere che sono stati commessi degli errori e che li correggeremo. Responsabilità significa riconoscere i propri errori. Detto questo, ho notato che, nel suo primo discorso sulla crisi, il Presidente Macron non ha parlato solo di aziende, ma anche di dipendenti e lavoratori. Questo è un primo cambiamento. Speriamo che alla fine si liberi dal mondo finanziario: ha anche menzionato la possibilità di cambiare il modello di sviluppo?

Ci stiamo quindi muovendo verso un cambiamento economico?

E.M..: Il nostro sistema basato sulla competitività e sulla redditività ha spesso gravi conseguenze sulle condizioni di lavoro. La pratica massiccia del telelavoro che si realizza attraverso il confinamento può aiutare a cambiare il modo di operare di aziende ancora troppo gerarchiche o autoritarie. La crisi attuale può anche accelerare il ritorno alla produzione locale e l’abbandono dell’intera industria dell’usa e getta, restituendo al tempo stesso il lavoro agli artigiani e alle botteghe locali. In un momento in cui i sindacati sono molto deboli, sono tutte queste azioni collettive che possono avere un impatto sul miglioramento delle condizioni di lavoro.

Stiamo vivendo un cambiamento politico, in cui il rapporto tra individuo e collettivo si sta trasformando?

E.M.: L’interesse individuale ha dominato tutto, e ora la solidarietà si sta risvegliando. Guardate il mondo ospedaliero: questo settore era in uno stato di profondo dissenso e malcontento, ma di fronte all’afflusso di malati, sta dimostrando una straordinaria solidarietà. Anche se sono confinati, la popolazione lo ha capito applaudendo, la sera, tutte queste persone che si dedicano e lavorano per loro. Questo è senza dubbio un momento di progresso, almeno a livello nazionale.

Purtroppo non si può parlare di un risveglio della solidarietà umana o planetaria. Eppure noi, esseri umani di tutti i paesi, ci trovavamo già di fronte agli stessi problemi di fronte al degrado ambientale o al cinismo economico. Oggi, trovandoci tutti confinati, dalla Nigeria alla Nuova Zelanda, dovremmo renderci conto che i nostri destini sono legati, che ci piaccia o no. Questo sarebbe un momento per rinfrescare il nostro umanesimo, perché finché non vediamo l’umanità come una comunità di destino, non possiamo spingere i governi ad agire in modo innovativo.

Che cosa può insegnarci il filosofo che lei ci insegna a passare questi lunghi periodi di reclusione?

E.M. : È vero che per molti di noi che vivono gran parte della nostra vita lontano da casa, questo brusco confinamento può essere un terribile inconveniente. Penso che possa essere un’occasione per riflettere, per chiederci cosa è frivolo o inutile nella nostra vita. Non dico che sia saggio restare nella propria stanza tutta la vita, ma anche se si tratta solo del modo in cui mangiamo o beviamo, potrebbe essere il momento di liberarsi di tutta questa cultura industriale di cui conosciamo i vizi, il momento di disintossicarci da essa. È anche un’occasione per prendere coscienza in modo permanente di queste verità umane che tutti conosciamo, ma che sono represse nel nostro subconscio: che l’amore, l’amicizia, la comunione, la solidarietà sono ciò che compongono la qualità della vita.

#7 Letture ai tempi del virus

La Città Delle Cose Dimenticate – The Town Of Forgotten Things

Un libricino di Massimiliano Frezzato, un libro per bambini diremmo. Eppure, come del resto molte cose che sembrano riguardare il mondo dei più piccoli, rappresenta un’utile lettura anche per gli adulti, per gli educatori, nel senso più ampio del termine.

Quando possiamo accedere al simbolo e alla metafora, ai vissuti ne ritorna una capacità generativa che diventa estremamente nutriente e potenzialmente trasformativa per tutti.

Simbolo, infatti, è una parola che deriva dal greco simballo e che rimanda all’azione dell’unire, del mettere insieme. La metafora, che appartiene al contesto culturale in cui viene elaborata, ci permette di trasferire quanto scritto in molte altre esperienze personali, come quella che per esempio, stiamo vivendo tutti in questo preciso istante.

Ognuno colga i propri simboli e le proprie metafore da questa bella storia, ci sono tante possibilità di lettura.

…non so se sto sognando ma faccio del mio meglio. Osservo, imparo e mi prendo cura delle cose

La storia “semplicemente” racconta di un merlo che si prende cura di tutte le cose dimenticate.

Dal link potrete accedere al corto di 17 minuti in un unico disegno. Un film di animazione senza animazione, diretto da Massimiliano Frezzato e Francesco Filippi

Vedetelo, vale la pena. Per la poesia e anche per la musica di Elisa Misolidio

https://vimeo.com/398167137?fbclid=IwAR3BaPI3PaSXWqyV4ihyCgVK3IDWTXuIf3OOIBddypihEivfUBoe_hLPous

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